domenica 31 dicembre 2017

Prosit...

E' finito. Il 2017 se ne è andato con gran soddisfazione di molti, me compresa. Un annus horribilis. Per quanto riguarda il 2018, non mi faccio molte illusioni. Attendo di essere stupita, smentita. Un tempo formulavo, con una fede ingenua frutto della poca esperienza di vita, pensieri e desideri di cose nuove, di sorprese, di felicità. Poi ho imparato che l'atteggiamento giusto è quello di non aspettarsi niente.
Stamattina mi sono svegliata presto. Il raffreddore mi accompagna da un paio di giorni. Intorno c'è un silenzio compatto. Tutt'intorno i miei libri. Ho preso, tra me e me, una serie di determinazioni per il nuovo anno. Non voglio parlare di promesse, ma di un progetto, di una costruzione di cose nuove da portare avanti con una certa continuità. Il passaggio tra il vecchio ed il nuovo anno l'ho trascorso in compagnia di me stessa e la cosa non mi ha turbata. Quanta gente, del resto, trascorre la fine e l'inizio di un anno sola? E per quante persone al mondo non c'è una fine né un inizio?
Sono stata sola, nel silenzio appena rotto da qualche "botto" che annunciava l'approssimarsi della mezzanotte. Ho persino brindato con un po' di brachetto. Un brindisi a me stessa. La "sfida" continua è quella di andare oltre i sensi di colpa, legame vetusto con antichi rituali quasi "tribali"; la sfida è conoscere e amare me stessa ogni giorno di più. La sfida più importante. Per certi versi ci vogliono dei nuovi inizi, indubbiamente. Ci vuole un punto e a capo.
E dunque lo metto, questo punto e a capo. 

giovedì 28 dicembre 2017

Cazzeggio libero... o quasi

Confesso che a me i Maneskin piacciono molto. Oggi sono sul trend "leggero". Mi piacciono questi quattro ragazzi romani e non mi piacciono solo perché sono romani. Mi piace il loro modo di stare sul palco, il loro modo di "recitare", di calarsi nella parte. Veri animali da palcoscenico.
Sicuramente il frontman (si chiama così, mi dicono, colui che "trascina" un gruppo musicale, solitamente si tratta del cantante, che si espone, ci mette la faccia, insomma) ha un carisma innegabile. Possono stare anche antipatici, per carità, ma non si può negare che ci sappiano fare e che sappiano il fatto loro.
Ma c'è anche un altro motivo per il quale mi piacciono, questi ragazzi. E' legato alla dolce malinconia di certi ricordi. Quando li ho visti in tivvù o su internet (non ho Sky, rete sulla quale è stato trasmesso X Factor, il programma che li ha fatti conoscere urbi et orbi), il pensiero è andato immediatamente a qualche decennio fa. In loro ho rivisto altri tre ragazzi, anche loro una band, che speravano di sfondare oltre le feste di premiazione di qualche compagnia assicurativa.
Li conoscevo, quei tre ragazzi. Di tanto in tanto assistevo pure alle prove dei loro pezzi, nella stanza della casa di uno di loro, altro che "studi"! Erano molto seri ed amavano la musica più delle ragazze, tant'è che quando la ragazza di uno di loro cercò di "mettersi di traverso" perché si sentiva trascurata e, forse, un po' "tradita", ci furono sonori chiarimenti, è il caso di dirlo. La musica è una donna gelosa, non tollera intromissioni di altre passioni, quella ragazza doveva rassegnarsi o mollare.
I Maneskin mi hanno fatto venire in mente quei tre amici - Alessandro, Massimiliano e Mauro - che suonavano pezzi degli Eagles alle premiazioni in parrocchia. I Maneskin, però, hanno una grinta e una determinazione che erano estranei a quei tre ragazzi. Del resto erano tempi "altri", si suonava in parrocchia, in qualche cantina semisconosciuta, a qualche festa di compleanno. Si sognava il posto fisso, si steccava con la benzina, si chiedeva l'automobile al padre o al fratello maggiore. E ci si vedeva, in futuro, su qualche palco, osannati e richiesti da un folto stuolo di ragazzine e ragazzini. Intanto i vinili o le cassette si registravano investendoci sopra i propri risparmi.
Eravamo un gruppo di giovani spensierati ed ingenui, noi tutti di quella compagnia di amici. Ritengo che l'ingenuità non faccia parte del bagaglio dei Maneskin, ma intuisco in loro una certa semplicità di fondo. Sono giovanissimi, del resto, ma sono anche "macchine da guerra" ben collaudate. Quello che non erano Alessandro, Massimiliano e Mauro, anche se la musica la sapevano fare.
All'epoca il frontman del gruppo era certamente Alessandro, voce e basso, un casco di riccioli scuri e grandi occhi anch'essi scuri come i riccioli. Anche lui, come Damiano, il frontman dei Maneskin, era bello e magnetico. Tante gli svolazzavano intorno con gli occhi a cuoricino. Ricordo certi "trenini" brasiliani alle feste di fine d'anno, il prendersi in giro parafrasando canzoni che andavano in voga all'epoca, la voglia di giocare tutti insieme rincorrendosi per le vie del centro.
Ecco, i Maneskin mi hanno riportato indietro di qualche decennio, hanno risvegliato ricordi e sensazioni che avevo chiuso in una sorta di cassapanca interiore, sicura di non doverli più tirar fuori. Mi hanno fatto provare un po' di tenerezza, di malinconia... con il loro modo di fare sfrontato, com'è logico che sia per ragazzi non ancora ventenni, che sentono di avere il fuoco nelle vene e il mondo da conquistare. E' un po' come se fossi tornata "giovane" anch'io, in fondo, a riprova che certe emozioni, certe sensazioni, non invecchiano mai. Davvero.
Un'ultima notazione. In un'intervista a "Il Tempo", Damiano David, frontman dei Maneskin, alla domanda se siano più arroganti o ambiziosi, risponde: "Tutti e due, siamo già arrivati sul palco con l’etichetta di antipatici, siamo “coatti” perché il coatto ha l’arroganza, l’irriverenza per non temere i confrontarsi con chi è più vecchio. Siamo adolescenti normali cui la vita da adolescenti va stretta”. E in queste parole ci ritrovo tutta la me stessa di quando avevo i loro anni...

mercoledì 27 dicembre 2017

Corsi e ricorsi

Natale è finito, passato, archiviato. Finalmente.
Un tempo amavo l'atmosfera natalizia: entravo in fibrillazione ogni volta che avvertivo, nell'aria, le vibrazioni della festa. Aspettavo con trepidazione le luminarie che allietavano le strade; aprivo, quasi con devozione, le scatole nelle quali erano custoditi i personaggi del presepe, la carta che simulava le montagne, le riproduzioni delle pecorelle e delle galline...
Adesso quasi non mi accorgo che è natale. Quest'anno, un pò per difficoltà finanziarie, un pò per trasferimenti lavorativi, mi sono trovata a due passi dal 25 dicembre senza accorgermene, troppo presa come sono stata da una serie di vicende personali. Ho perso quell'atmosfera che a me piace tanto, ammesso che quest'anno ci fosse, naturalmente. Non ho fatto le mie abituali passeggiate nelle strade del quartiere illuminate per la festa, non mi sono incantata di fronte alle vetrine piene di luci e di lustrini, non ho assaporato la spiritualità dei presepi... Ho capito, però, che devo cambiare qualcosa nel mio modo di affrontare gli eventi, qualunque essi siano, della mia vita. Quando si perde qualcosa è perché è necessario imparare qualcos'altro.
La vigilia di natale c'è stato il consueto "cenone" con parte del parentado. La famiglia si è un po' dispersa, dopo la morte di mia nonna, una vera matriarca. Siamo rimasti in pochi e per molto tempo non si è fatto granché. Quest'anno siamo andati a casa di mia cugina. Cena di pesce, come di consueto alla vigilia. Io che non mangio pesce mi sono "arrangiata". Come di consueto.
Non è stato un gran bel natale, onestamente. Forse mi aspettavo troppo io. Dimentico sempre che il passato difficilmente ritorna. Non voglio ammettere con me stessa, forse, che le atmosfere di un tempo non possono ripetersi. Ho capito, però, che devo farmene una ragione. Tutti quanti noi siamo diversi, la situazione è diversa. Anni e problemi, tanti degli uni quanto degli altri, sono passati sotto i metaforici ponti.
I legami con la mia famiglia d'origine - intendo la mia famiglia "allargata" - sono sempre stati piuttosto problematici. Finché ero troppo piccola per capire le cose, tutto sommato, andavano bene. Mi divertivo con i miei cugini, tutti più o meno della stessa età. Non avevo modo di notare le cose che, più avanti, ho cominciato a vedere. Ed anche a ricordare. La memoria è una dannazione, a volte. Diciamo che il mio carattere un po' particolare, ombroso e schivo, non mi ha facilitata molto crescendo. E di questo ne ha tratto guadagno mia sorella, la beniamina - e tuttora lo è - del gruppo famigliare. Certe cose, una volta sedimentatisi, non cambiano granché nel tempo. In fondo siamo tutti animali abitudinari.
Ho dovuto lavorare moltissimo su me stessa per andare oltre la rabbia, la mortificazione della mia personalità e tutte quelle paranoie che hanno, purtroppo, caratterizzato buona parte della mia adolescenza e della mia età adulta. Quando ho iniziato ad andare dal meccanico ero un grumo concentrato di rabbia pronto ad esplodere. Ce l'avevo con tutti: con i miei genitori per non avermi sufficientemente spronata e compresa; con mia sorella che ho sempre tacciato di ipocrisia (comunque che sia un po' ipocrita lo penso tuttora) e di egocentrismo; con i miei parenti che vedevano (e vedono) solo lei. E' stata durissima, all'inizio, recuperare me stessa. Mi sembrava di fare due passi in avanti e sei indietro.
Ora ho tolto la cornice al quadruccio, come dico spesso. Vale a dire che ho ridimensionato molto i rapporti con i membri della mia famiglia, ho ridimensionato i membri della mia famiglia ed anche la rabbia. Certo, rimane un po' di amarezza per quel che poteva essere e non è stato, ma non vado più alla ricerca di un colpevole. Cerco di scegliere. Cerco di godere delle "piccole gioie quotidiane", per dirla con Battiato. Cerco di valorizzare quella che sono, senza paura di mettermi in luce, quando ho l'occasione di farlo.
Voglio splendere anche io. Voglio parlare e dire e fare e ridere ed avere anche io l'attenzione concentrata su di me. Voglio scegliere e scegliere di non scegliere, se è il caso. Voglio pensare che certa gente sia ipocrita, falsa e infrequentabile senza sensi di colpa. Girare le spalle e pensare ad altro. Voglio perdonare e dimenticare di aver pianto e sofferto a causa di qualcuno. La vita è troppo breve per perdere tempo in queste cose.

martedì 19 dicembre 2017

Tempo di vivere...

Il Natale porta sempre, per me, un pò di malinconia. Forse per i bambini è diverso. I bambini sanno vedere le luci, la magia dell'attesa, sanno leggere con il cuore senza sovrastrutture. Da adulti impariamo, forse, troppo ad utilizzare il cervello dimenticandoci di quest'organo pulsante che si incarica non solo dei sentimenti, ma di pompare sangue in tutto il nostro corpo.
Ricordo altri Natali, oramai confinati nelle nebbie del "mito". Ricordo l'allegria, la magia, l'attesa, lo stupore, la voglia di non andare a dormire... E' così un pò tutti gli anni, la questione dei ricordi, intendo. Quasi ogni anno sto lì, che con lo sguardo perso nel vuoto "proietto" il film dei miei Natali felici. Credo di essere un pò sadomasochista, a questo punto...
Quest'anno andremo da mia cugina. Gli ultimi "scampoli" della nostra un tempo numerosa famiglia... Uno dei miei cugini, quasi coetaneo, è morto lo scorso anno. Un'altra mia cugina, tre anni più di me, è morta nel silenzio di rapporti parentali difficili per non dire inesistenti. Siamo rimasti in pochi, pochissimi. Adesso ci sono i figli di questi cugini ad animare le veglie natalizie con la loro vivacità. I tempi cambiano. Il tempo passa.
Questo Natale è arrivato, devo dire, quasi di soppiatto, in sordina. O forse è solo una mia impressione. Un giorno sono tornata dal lavoro e mi sono trovata le luminarie per le strade e gli addobbi natalizi nelle vetrine. "E' quasi Natale!", ricordo di aver pensato con stupore. E mi sono chiesta come non me ne fossi accorta prima: il calendario ce l'ho pure io a casa, e l'eterna questione delle ferie l'ho affrontata pure io in ufficio. Una "distrazione" che mi fa pensare.
Credo che sia tempo che io cambi qualcosa, nella mia vita. Finora mi sono lasciata assorbire troppo dai problemi del lavoro e mi sono troppo concentrata su una sorta di malinconico autocompiacimento. C'è tutta una vita, fuori. Ci sono persone, ci sono cose da fare, ci sono gusti da assaporare, colori e suoni di cui stupirsi... Ci sono Natali ed Epifanie e Pasque da vivere e condividere...
Faccio un bel pò di fatica, per una serie di motivi che abbiamo ampiamente analizzato con il "meccanico", ma so che non posso più far finta di niente, non posso più chiudermi e rinchiudermi. Ci sarà tempo per morire, ora è il tempo di vivere.

lunedì 18 dicembre 2017

Viale del tramonto

Non scrivo da tanto tempo, è vero. E tante sono le cose che sono accadute, nel frattempo. Innanzitutto ho nuovamente cambiato ufficio a neanche due anni dall'ultimo trasferimento. Meglio non commentare. Quel che avevo da dire l'ho detto. Sono meno arrabbiata di prima, complice l'analisi che mi sta riportando a me, finalmente. Finalmente. Sto ristabilendo le priorità; era tempo che lo facessi.
Stamattina mi sono concessa un giorno di ferie. Niente di speciale: una passeggiata per mantenere in buon uso le giunture, un breve percorso sui mezzi pubblici, qualche acquisto per la casa. E' bello riappropriarsi di tempi più consoni al modo di essere. E' solitamente sui mezzi pubblici che ho modo di contattare un'umanità vera, quella della periferia in cui vivo. E' interessante osservare le persone, ascoltare i loro discorsi, studiare le loro facce. Facce piene di rughe, occhi carichi di stanchezza. Niente a che vedere con le immaginette edulcolorate che ci sparano dalla tivvù.
Incontro diverse persone anziane, sui bus o sul tram. Vestiti modesti, capelli freschi di bigodini e di tinte tutte uguali per le donne; occhiali d'ordinanza e giornale sotto il braccio per gli uomini. Chissà dove vanno queste persone, o da dove tornano. Molti sono soli. Camminano lentamente, lentamente si avvicinano alle porte, lentamente alzano le mani afflitte dall'artrite verso il campanello, per prenotare la fermata. E lentamente, faticosamente, scendono gli alti gradini.
Sembra che gli anziani vivano, a volte, in un mondo e in un tempo diverso. Attraversano strade e marciapiedi con gli occhi persi altrove. Trascinano faticosamente carrelli della spesa, poggiandosi ai loro bastoni, lo sguardo sempre malinconico e lontano. I loro sacchetti di plastica della spesa sono sempre miseri, appena gonfi di qualche verdura o frutta.
Chissà quante cose avrebbero da raccontare, questi anziani così smarriti e soli. Li guardo e li immagino giovani e carichi di sogni, di speranze, di sorrisi. Li vedo ridere, correre, divertirsi, amare, sperare, vivere e soffrire. In loro è come se vedessi quella che sarò tra vent'anni o più. Ci sono molti anziani, nel mio quartiere. Molti frequentano il centro anziani, altri, invece, preferiscono le attività della parrocchia. La mia vicina di casa, per esempio, tutti i giorni recita il rosario in chiesa con altre due sue amiche. Che faccia caldo o che faccia freddo.
Anche mia madre è anziana, piena di rughe e di acciacchi. Mio padre è morto tre anni fa, quasi, e il suo ricordo ancora aleggia tra il divano e la cucina che i miei hanno comprato con grandi sacrifici. L'urna in cui sono custodite le sue ceneri è lì, nella camera da letto, con le sue foto, le foto di mio padre come era un tempo, sorridente e attivo.
Credo che l'amore, l'affetto, difficilmente muoiano con noi. Rimangono lì come sospesi, ci fanno compagnia, segnano le nostre giornate, i nostri ricordi... E gli occhi degli anziani che incontro quotidianamente sono un pò come gli occhi di mia madre. E le loro vite non narrate sono un pò come la vita di mia madre. Sono storie di sacrifici, di amore, di speranze. Credo che questa sia la vita vera, queste rughe, questi capelli un pò sbiaditi, questo rossetto sbavato, questi occhi opachi.
Fingere che tutto questo non esista o non sia così, è pura ipocrisia, superficialità. Fingere di essere qualcosa o qualcuno che non si è mi sembra patetico, inutile, infantile. Ma non tutti amano che si racconti loro la vita. Molti amano le favole, amano vivere in un'immaginario completamente avulso dalla realtà. Forse per illudersi che questa vita non è poi così ingiusta e isterica come appare. Forse per pensare di averci ancora un posto, in questa vita, che sia diverso dal "nonno" o dalla "nonna". Forse per coltivare ancora la speranza di poter fare, provare, desiderare...