venerdì 16 aprile 2021

Fluire...

Ho telefonato ad una mia amica, oggi, per il suo compleanno. Non ci sentivamo da tanto, troppo, tempo. Ci siamo conosciute frequentando la stessa associazione, abbiamo fatto viaggi interessantissimi e bellissimi, ci siamo divertite ed abbiamo fatto parte di un gruppo di persone che si vedeva anche al di fuori dell'associazione.
Poi, dopo un po' di anni, è venuto il "tempo della separazione", come lo definisco ora io. Il tempo in cui tutto finisce ed ognuno se ne va per la sua strada; il tempo in cui ci si perde, ci si stanca. Forse, anche. Ma lei ed io, quelle rare volte che ci siamo sentite durante questo tempo di separazione, abbiamo sempre conservato un certo contatto.
Se c'è una cosa che sto imparando e comprendendo è, appunto, rivalutare e ricostruire i rapporti, quelli che interessano, ovviamente. E, soprattutto, non prendermela troppo per chi è "scomparso". 
Ho cominciato a pensare che molto spesso le persone hanno quasi timore o vergogna di ammettere, con se stessi e con gli altri, che ci si può "stancare" degli amici. Che si può sentire il bisogno di prendere qualche boccata d'aria, di guardare altrove, di fare altro, di non sentire, non vedere... Credo sia abbastanza comprensibile. Può succedere. 
Per molto tempo - troppo! - sono stata intransigente: non ammettevo che le amicizie potessero finire senza una spiegazione, un perché, una ragione.  
Ne parlavamo con questa mia amica. Adesso sono più per una linea morbida. La vita forgia, anche a costo di prenderti a pugni. E con me lo sta facendo. Mi sta facendo comprendere, duramente, che è rimanendo fluidi che si può raggiungere la tranquillità. Ma non si impara ad essere fluidi da un momento all'altro. E quando si ha una certa età è pure più difficile lasciarsi andare, fluire.
Comunque, va bene così. Va bene che certe persone si siano allontanate. Spero che stiano bene e che siano serene. Abbiamo fatto insieme un bel tratto di strada, ci siamo divertiti ed abbiamo visto e fatto tante belle cose, che rimarranno incise nei miei ricordi e per le quali li ringrazio. Ho ancora bisogno di metabolizzare qualcosina, ma è poca cosa. I bei ricordi bastano. Ci saranno altre vite da incontrare.
Al momento il mio "parterre" amicale è esiguo, ma va bene così. Non sento di aver bisogno di più di quel che ho perché sento il bisogno di approfondire, riallacciare legami, frequentare. Insomma ho bisogno di fare il punto della situazione, della mia situazione, in questo tornado che mi ha presa e scaraventata non so dove.
Con la mia amica ci siamo ripromesse di sentirci con più frequenza. Lei (fortunata!) è in pensione. Non appena questa situazione sanitaria si regolarizzerà, ci rivedremo anche. E riallacceremo quel legame che avevamo e che non si è mai logorato. Sono contenta.
Adesso è tempo di imparare a fluire. Con la speranza che il tornado che mi ha investito si allontani. 

domenica 11 aprile 2021

Confessioni - Quarta parte

E rieccomi. Queste "confessioni" mi stanno risultando un po' difficili. Certe volte mi sembra di scrivere di un'altra persona. Mi meraviglio di tante cose che non corrispondono a quella che sono. Eppure... eppure ero io.
Comunque, scrivevo dell'amicizia, in precedenza. Già, l'amicizia. Sempre idealizzata, cercata, ambita, desiderata, agognata. Avrei voluto avere un amico del cuore, qualcuno al quale confidare tutto quello che tenevo custodito nel mio animo. A quindici anni ce l'hanno quasi tutti. Già. Quasi.
Le mie confidenze a quindici anni le facevo ad un diario, un'agenda rossa riciclata, sulle cui righe amavo scrivere con la penna stilografica. Ce l'ho ancora, quell'agenda. Ogni tanto vado a sbirciare tra le pagine oramai ingiallite e non mi ritrovo. Rivedo l'adolescente che ero con tutte le sue paranoie, ma non mi riconosco. 
Quelle righe vergate da una scrittura regolare, quasi infantile, parlano di una sete d'affetto, di amore, incredibile. Forse inestinguibile. E l'amicizia è una forma d'amore. Ed io quell'amore non lo avevo, all'epoca. Se ripercorro i rari ricordi di allora, mi rammento che non riuscivo a comprendere cosa di me non piacesse agli altri. Una volta davo la colpa agli occhiali troppo spessi, un'altra al fatto di avere forme un po' generose; un'altra ancora al fatto che non ero troppo "sveglia", nel senso che non capivo le dinamiche degli adolescenti, dei loro desideri. Forse per un'educazione troppo severa, che aveva teso a proteggermi da tante (troppe!) cose.
Comunque di amici, nella mia vita, ne sono transitati pochi. Pochi veri, intendo. Le amicizie superficiali, invece, sono state diverse ed appaganti quanto può essere un piatto di pasta quando hai fame. Poi, però, finisce tutto.
Adesso? Ogni tanto soffro di crisi di astinenza, lo confesso. Il vuoto affettivo è rimasto, se pure mitigato da altri amori, da altre compensazioni che non sono un modo per accontentarmi. Quando ero più giovane avvertivo una voragine, adesso c'è solo uno spazio vuoto che tale è rimasto: quello dell'amico o dell'amica del cuore. Spesso, quando sto male (e l'anno passato, per motivi diversi, è stato per me un annus horribilis) mi viene una sorta di ansia che deve essere placata: devo parlare con qualcuno, cercare chi conosca il mio linguaggio ed il mio vissuto. Puntualmente non trovo mai nessuno. Scorro la rubrica sul cellulare e non provo l'istinto di chiamare nessuno.
Questo mi fa riflettere, molto più di quanto già non riflettessi un tempo. Se non c'è nessuno che vorrei chiamare vuol dire che, in realtà, non c'è nessuno che io consideri un amico vero. Sto cercando di accettare la mia fondamentale solitudine, che è la solitudine di molti, in definitiva. Il che non esclude che possa avere relazioni pseudo amicali a breve termine. Le accetto per quello che sono e per quel che durano. Anche se il vuoto resta lì.
Passo molto tempo in silenzio, ora, cercando di superare anche quegli attacchi di panico e quella sensazione di soffocamento che spesso mi assalgono. Cerco, in ufficio, di non alzarmi più alla ricerca di qualche anima buona che si faccia due chiacchiere con me. Rimango seduta. Respiro profondamente. Mi concentro. Cerco di calmare la mente e lo spirito e di sentire il silenzio per quello che è. Fuori e dentro di me.
Ci sono persone con le quali dialogo. Al momento ho rinunciato ad utilizzare il termine "amico". Non lo farò finquando non avrò messo a posto le "cose" dentro di me. Non ci sentiamo di frequente. Spesso i dialoghi sono incentrati sul lavoro e le frustrazioni del lavoro. Ci si vede, raramente (adesso, poi, per niente!) si va a cena fuori. Quando succedeva, prima dell'era covid, personalmente mi sentivo spesso a disagio. Ma, forse, era "colpa" del personaggio che mi ero costruita, il camaleonte. L'ansia da prestazione, insomma.
Adesso sento l'esigenza primaria di fare amicizia con me, di vivere me stessa come realmente sono e di superare i timori della non accettazione da parte degli altri. Di correre questo "rischio", il rischio di volermi realmente bene e di accettarmi per quella che sono. Malgrado avverta i "morsi" della fame di amicizia, devo imparare ad ignorarli. Per il momento. Devo imparare a stare da sola. In silenzio.

sabato 10 aprile 2021

Confessioni - Terza parte

Sia la pandemia che il cambio del lavoro, dopo un bel po' di tempo (un anno) mi stanno insegnando a guardare meglio dentro me stessa. A conoscermi meglio. A non adeguarmi all'ambiente circostante come se fossi un'iguana. A non cercare sempre di essere all'altezza delle aspettative degli altri, ma sforzarmi di imparare ad essere all'altezza delle mie aspettative.
I rapporti amicali hanno un loro peso, in questa fase del mio cammino. Al di fuori del lavoro, non ho amicizie. Dovrei riannodare i fili di alcune di queste, ma se lo facessi ora ho timore che commetterei i soliti errori. Adesso devo fare amicizia con me stessa. Finora non ho fatto altro che fuggire da me.
La solitudine, lo confesso, un po' mi spaventa. Ma è necessaria. E' nella solitudine che le cose si chiariscono, che i nodi vengono al pettine. Per troppo tempo sono sfuggita dalla solitudine. Ho allacciato rapporti che, forse, in momenti più equilibrati, avrei evitati. Questo, dunque, per me, è un momento di solitudine odiata ed amata e proprio per questo necessaria come l'acqua.
Meglio non deambulare oltre 😊. Sul lavoro ho incontrato delle persone con le quali ho stretto amicizia nel corso degli anni. Credo che la cosa che le abbia maggiormente attratte nei miei confronti sia sicuramente la cultura, innanzitutto, e poi una sorta di non conformismo. Insomma la curiosità è stato il pungolo ed io mi sono sentita lusingata e privilegiata da questi "avvicinamenti". Erano persone di una certa levatura, appartenevano a quello che mi sembrava - all'epoca - una sorta di "circolo esclusivo", all'interno dell'ufficio.
Non mi sentivo alla loro altezza, ma questo era dovuto ad una bassa autostima, un problema che mi ha sempre afflitta e che, certamente, mi auguro di risolvere grazie a questa forzata solitudine, a questa pandemia che si sta rivelando fonte di insegnamento, oltre che di dolore e di insofferenza. O, forse, proprio perché fonte di dolore e insofferenza alla fine bisogna trovarci dentro qualche senso che ne giustifichi l'esistenza.
Dal momento che non mi sentivo all'altezza di queste amicizie, ho cominciato a "costruirmi" un personaggio, a cercare di indovinare quali fossero le "regole guida" che modulavano i rapporti con queste persone. Ho cominciato a trasformarmi in un iguana, insomma 😄. Cercavo di carpire gli argomenti di conversazione che queste persone più gradivano, l'ironia, le cose che li divertivano e via elencando. A lungo andare è stato spersonalizzante. Me ne prendo tutta la responsabilità. Le mie ataviche e non risolte difficoltà hanno finito per consigliarmi nel modo sbagliato.
Queste amicizie durano da anni. Più o meno stancamente. Tra alti e bassi. La vita ci ha cambiato un po' tutti. La vita o il tempo. Riscoprendo la mia individualità, mi rendo conto di quanto poco mi sia rispettata, nella scelta delle amicizie. Non ho rispettato la mia anima, i miei desideri, i miei progetti di vita, quello che sentivo, insomma.
(continua...)

giovedì 8 aprile 2021

Confessioni - seconda parte

 

E' da un po' di tempo che sto prendendo in considerazione i miei pochi rapporti amicali. "Colpa" della pandemia, che ha reso necessario una sorta di "redde rationem" su diversi aspetti della mia vita.
Sto cercando di capire cos'è per me l'amicizia, cosa sono in grado di "offrire" ad un/una amico/a e cosa mi piacerebbe ricevere. Scrutare dentro me stessa comporta anche questo, capire. Soprattutto capire.
La pandemia ci ha tutti un po' isolati, costretti a chiuderci nelle case, nella solitudine di un ufficio dove siamo uno per stanza. Niente cene, niente aperitivi, niente gelati. Solo telefonate o videochiamate che appagano in parte la socialità, la voglia di comunicare. In questo contesto la solitudine è pesante. A me, perlomeno, sta pesando molto. A volte ho una sorta di attacchi di panico, mi sembra di girarmi e rigirarmi in una piscina, dove sono sul fondo e non riesco a riemergere. Sono assalita da un affanno immotivato: cerco qualcuno con cui comunicare, non importa cosa, basta parlare, dire, dirsi, guardarsi negli occhi, in faccia.
Non ho molti amici. Con il passare degli anni è come se avessi fatto (o avessi subìto) una sorta di scrematura. Le persone sono passate e andate via dalla mia vita. Ho capito che è un processo naturale, anche se avrei voluto avere un'amica o un amico fedele, che crescesse con me, che attraversasse con me le tempeste ed i momenti di calma. 
Ho incontrate molte persone. A vent'anni avevo pure una sorta di compagnia (come si chiamava allora) con la quale dividere le giornate festive, tra partite con il pallone, giochi all'aria aperta e cantate con la chitarra. E' stato un periodo molto bello che - lo confesso - qualche volta ho rimpianto.
Poi c'è stata la parrocchia e ci sono stati altri amici. Dodici anni divisi tra le prove del coro parrocchiale e le uscite serali in localini senza pretese, ma con tanta, tantissima allegria e voglia di stare insieme.
Con il lavoro, però, le cose sono sensibilmente cambiate. Non è stato un cambiamento improvviso, ma, piuttosto, lento e protratto nel tempo. Le amicizie si sono diradate. All'inizio per un rapporto affettivo sbagliato ho finito per perdere la maggior parte degli amici di un tempo. Poi ho iniziato a frequentare un gruppo di volontari che sono stati i miei amici per dieci bellissimi anni. Abbiamo condiviso tantissime cose: la passione per l'archeologia, i viaggi, le scampagnate, le cene, la vita... E' stata l'esperienza che ho più rimpianto in questi ultimi anni. Adesso ci penso con un sorriso. Credo di essere riuscita a metabolizzare, come molti amano dire. Avevo buone ragioni per lasciare il gruppo e a tutt'oggi credo di aver preso la giusta decisione.
Dopo queste "tumultuose" esperienze, sempre meno persone si sono affacciate nella mia vita. Sporadici rapporti amicali, alcuni dei quali con colleghe d'ufficio. Rapporti che tuttora perdurano ma sui quali sto riflettendo molto. Per quel che penso, i rapporti nati sul posto di lavoro rischiano di essere inficiati da qualche problema. Innanzitutto il fatto di condividere il luogo di lavoro con tutte le problematiche conseguenti. E poi, mi son chiesta, fino a che punto ci si sceglie? Fino a che punto queste amicizie sono condizionate dal condividere tempi e spazi?
(continua... forse)

martedì 6 aprile 2021

Confessioni - prima parte

Questi tempi così difficili e tragici mi stanno facendo riflettere su molte cose. Innanzitutto sullo stare sola con me stessa. Il virus, volenti o nolenti, ci ha allontanati dagli altri, ci ha costretti a camminare con le nostre malferme gambe. Con le mie malferme gambe.
Lentamente sto realizzando quanto poco mi conosca. Quanto poco conosca i moti del mio animo, i miei desideri, le mie paure, i miei smarrimenti. Lo scorso anno è stato come trovarmi in mezzo ad un tornado. Non che ne sia uscita, beninteso! E' che adesso sto raccogliendo tutto quello che il tornado ha sparpagliato intorno a me.
E' stato come se qualcuno fosse entrato in casa mia e l'avesse messa completamente a soqquadro. Di fronte al caos, al disordine, mi sono sentita smarrita ed ancora un po' lo sono. Alla pandemia si è aggiunto un trasferimento lavorativo che non ho ancora metabolizzato, in un settore che mi sta procurando non poco stress ed altri problemi di carattere psicologico. Finora non ne ho scritto perché ero consapevole di essere confusa, di non pensare chiaramente. Le poche righe che mi capitava di scrivere erano una sorta di caos di sentimenti, di emozioni, di paure.
Dunque mi sono resa conto di non conoscermi così bene come credevo. La me stessa ante covid è una persona che adesso mi è del tutto estranea, sconosciuta. Una persona che, per certi versi, viveva una vita non completamente sua. La me stessa di qualche tempo fa sembrava vivere per compiacere gli altri, per corrispondere all'idea che gli altri si erano fatta di lei. Per "sete" di affetto, di compagnia, di considerazione. Il prezzo è stato perdere me stessa. Lentamente e senza che me ne rendessi conto fino ad ora. Ora che ho a che fare con tutti i miei irrisolti, tutte le mie paure, tutte le mie "mancanze" che, lo so bene, non possono essere del tutto colmate.
Sto imparando che non si cresce necessariamente allo stesso modo. C'è chi matura prima, c'è chi certe cose le comprende più tardi. Ma, poi, mi chiedo, esiste davvero un "prima" ed un "dopo"? All'inizio mi sono colpevolizzata non poco perché non ero "all'altezza" degli altri, che certe cose le hanno capite e fatte prima di me. Pensavo che i miei tempi fossero sbagliati. Pensavo di dover "essere all'altezza" di una certa opinione di me che avevo maturato negli anni, vale a dire che dovevo essere idealista, amante della giustizia, onesta, leale, corretta e via elencando. Era un po' come fare i compiti in classe, insomma, ma questo l'ho capito solo da poco.
Il fatto è che non devo recitare una parte. Quelle qualità, quei valori, erano e sono i miei valori ma non andavano "recitati" come in una piece teatrale. Soprattutto non andavano esibiti come medaglie su una giacca. Alla fine c'è stato una sorta di "scollamento", in me. La giustizia si è trasformata in una malcelata rabbia per le ingiustizie che subivo (e non solo io, beninteso!) ogni giorno, soprattutto sul lavoro. L'idealismo ha sfiorato quasi l'assolutismo, quello che fa dire: chi non è con me è contro di me e va punito. Ho portato tutto all'esasperazione, all'estremizzazione. Una sorta di delirio.