sabato 27 marzo 2021

Annus horribilis

Questa pandemia sta facendo emergere il meglio ed il peggio degli umani (se taluni possono essere ancora definiti tali, beninteso). Siamo diventati più cattivi, più chiusi, più individualisti. Alla solidarietà encomiabile di giovani ed associazioni, corrisponde sempre più spesso una sorta di follia collettiva che porta a prevaricare il prossimo in nome del benessere personale.
Con un termine edulcorato lo si può definire "egoismo", ma essere gentili e buoni e moderati non è più possibile, oramai. Bisogna guardare le cose in faccia come sono e chiamarle con il loro nome. 
I canti sui balconi sono terminati. La grande solidarietà è stata cacciata - almeno sui giornali e sui siti di notizie - all'ultimo posto. Ora le cronache sono zeppe di notizie di aggressioni, di violenza, di baby gang, di furti e compagnia cantante. Un diffuso senso di insicurezza e paura pervade noi tutti. Lo si respira, quasi. E già ci si guardava con diffidenza per via di questo maledetto virus, figuriamoci adesso!
Per quel che riguarda il lavoro, almeno la realtà che vivo in prima persona, le cose sono nettamente peggiorate. Innanzitutto i rapporti umani sono sempre più difficili per non dire quasi inesistenti. Non ci si fida più gli uni degli altri. E' vero, è una situazione pregressa all'epidemia, che affonda le sue radici in una pessima gestione degli uffici pubblici. 
Si, la situazione è pregressa, nell'ente dove lavoro. La pandemia non ha fatto altro che aggravare la situazione. Le vessazioni si sono acuite e moltiplicate. Senza che nessuno muova un dito, senza che nessuno intervenga e questo fa sentire i pochi onesti che ancora resistono in uno stato di sofferenza spesso intollerabile.
La pandemia è diventata la scusa dietro la quale nascondere le più bieche nefandezze. Il guaio è che la pandemia non è una scusa, ma una realtà terribile, che da un anno ci fa "compagnia", che si è portata via quasi una generazione, che ci sta tenendo lontani gli uni dagli altri. Che ci siano soggetti che profittano di questa situazione per i loro porci comodi, mi fa inorridire. Inorridire.
Oramai non mi fido più di nessuno e questo fa male anche a me. Trascorro molto tempo in silenzio. Non ho voglia di sentire nessuno e parlare, dialogare, interloquire mi riesce sempre più difficile. Mi chiedo spesso come saremo una volta che sarà passato questo uragano. Come sarà la società che, oramai, siamo abituati a vedere passare da una zona rossa ad una arancione e viceversa? Come saremo noi tutti?
Onestamente non riesco ad immaginare nemmeno un futuro prossimo. E' tutto buio, impreciso, incerto, labile. Mi contento di vivere alla giornata. Un giorno va bene, il seguente non va per niente per il verso giusto: un'alternanza che sto imparando ad accettare. Del resto che altro potrei fare?
Ma questo non è vivere. E' cercare di cavarsela, di galleggiare. 
Dentro di me avverto il ringhio sordo della rabbia e dell'insoddisfazione. E' come se, dentro di me, ci fosse una belva tenuta per troppo tempo in cattività. Una belva che ha dovuto sopportare, subire, fare buon viso a cattivo gioco e che non ne può più. Confesso che a volte ho paura. Che conseguenze avrà tutto questo sul mio futuro, ammesso che futuro - prossimo o remoto che sia - ci sarà?

Eravamo felici e non lo sapevamo... sicuri?

In questo periodo così difficile e "strano", il periodo della pandemia, in cui tutti siamo stati in qualche modo costretti a cambiare vita, sogni, abitudini e nel quale abbiamo dovuto tutti confrontarci con una miriade di notizie allarmanti al limite del terrorismo mediatico, che ci hanno bombardato impietosamente, sopravvengono - ciliegina sulla torta! - anche vicende umane poco rilassanti.
La pandemia ha creato nuovi poveri, ha spazzato via intere famiglie ed affetti, ha rimodulato i rapporti personali, amicali e familiari. Ha messo le distanze, costretto a lasciar scoperti solo gli occhi, ci ha messo in fila ai supermercati come nel periodo di guerra. La pandemia ha separato le persone, le ha fatte morire da sole in ospedale, le ha "sparate" in ogni parte d'Italia. La pandemia ci ha fatto guardare l'un l'altro con diffidenza e, poi, ci ha spinto alla solidarietà, pure tra la paura.
Nel quartiere dove vivo si sono attivate diverse associazioni, diversi gruppi formati da giovani e meno giovani che si sono incaricati di assistere i più deboli e soli: gli anziani, le famiglie povere, i bambini, chi non aveva (ed ancora non ha) soldi per mangiare e curarsi. Sono cose così belle da sembrare quasi irreali. Alla solidarietà "prima" non eravamo molto abituati. Prima della pandemia, quando tutti, più o meno, correvamo come vespe impazzite verso chissà cosa, sfiorandoci, urtandoci, maledicendoci... No, "prima" la solidarietà aveva davvero poco spazio. Anche nella mia vita, nei miei pensieri. Lo ammetto.
Anche io correvo, insoddisfatta e distratta, tra nugoli di gente, su autobus sempre troppo pieni, impegnata in una routine lavorativa che, oramai, non mi dava alcuna soddisfazioni ma solo mortificazioni. Quante volte ho espresso giudizi affrettati ed emesso sentenze superficiali. Quante volte mi sono esposta quasi a voler fare la paladina di chissà quali battaglie, più per gli occhi degli "altri" che per il mio benessere.
Ed ecco la pandemia. Ed oltre alla pandemia il trasferimento. L'ennesimo. Oramai ho perso il conto di quanti ne ho fatti. Trasferimento nella sede più distante da casa (ovviamente!) ed in un servizio "difficile". In un momento della mia vita in cui vorrei solo essere lasciata in pace, fare il mio dovere quotidiano e pensare alla pensione e a che fare dopo la pensione. In piena pandemia. E poi, di corsa, in "lavoro agile" (traduzione dell'anglismo smart working), senza sapere cosa e come fare, con colleghi e capo che per lo più non conosco e con una maturata diffidenza nei confronti di tutti.
Si, diffidenza. Se sono dove sono oltre a me stessa lo devo anche a chi si è inchinato al mestiere di spia, di cane da riporto. Ovviamente la mia responsabilità è molto più alta: chi è causa del suo mal pianga se stesso. Ma diciamo che almeno il 5% lo attribuisco all'azione di colleghi poco corretti, ansiosi di rendersi utili (idioti) del satrapo.
Queste vicende, sicuramente "normali" per molti, mi hanno letteralmente cambiata la vita, quella interiore, quella psicologica. Mi sto scoprendo sempre più fragile ed impaurita. La fragilità ha mandato all'aria tutto ciò che pensavo di aver costruito, tutto ciò che pensavo di essere, tutto quello che credevo fosse certezza... Forse è un bene, al momento non lo so. Attraverso giornate in uno stato che io chiamo "depressione" e giornate in cui riesco a star meglio. Non riesco ad accettare "questo" cambiamento in "questo" momento. Mi sono posta di traverso, nei confronti del nuovo lavoro: non ho voglia di imparare, non ho voglia di fare, non ho voglia e basta.