martedì 1 ottobre 2019

Far agire il cambiamento

Sono "sopravvissuta" ad una sorta di maratona a fini concorsuali, dove per tre giorni non ho fatto altro che stare in piedi e girare come una trottola. Facevo parte della vigilanza, i "cani da guardia" che hanno il compito di controllare che non si copi, non si parli, non ci si serva di mezzi non concessi per tentare di superare la prova.
Ma non è tanto una stanchezza fisica, quella che sento, quanto una stanchezza psicologica, morale, spirituale persino. La stanchezza di avere a che fare con persone che sono involucri vuoti, privi della più elementare dignità. Una metafora di questo Paese sempre più confuso, arrabbiato, in vendita al miglior offerente, dove la parte sana fatica a vivere e a farsi sentire.
Non è che non sapessi tutte queste cose: le vivo quotidianamente sul posto di lavoro ed anche - purtroppo - fuori del posto di lavoro. Forse, mi son detta durante il fine settimana appena trascorso, dando sfogo alle riflessioni a ruota libera, il "problema" è stato che non volevo crederci fino in fondo. Forse faticavo ad accettare che non c'era e non c'è alcuna speranza di cambiamento, al momento. Perché così è, almeno sul posto di lavoro. Faticavo ad arrendermi all'evidenza, insomma.
Quello che ho visto e vissuto durante tre giorni piuttosto faticosi di sorveglianza è stato estremamente educativo, soprattutto dal punto di vista umano, perché qui non è in gioco la "professionalità", ma la dignità e l'umanità, nel senso più ampio del termine, delle persone.
Mi batto il petto facendo il "mea culpa": sono stata, finora, troppo idealista, troppo proiettata in una dimensione che, a conti fatti, è irreale ed irrealizzabile. Ma non è solo questo. E' anche altro, più personale, più "radicale" nel senso di pertinente alle mie radici. E' qualcosa di più personale.
Ho compreso che la mia rabbia, spesso esagerata, nei confronti di situazioni e persone che incontro sul luogo di lavoro, è molto più atavica di quanto credessi. E' stata una sorta di "illuminazione" tra una camicia da stirare ed un'altra da piegare, domenica pomeriggio, quando ero sola in casa. Le "illuminazioni", evidentemente, avvengono negli attimi più banali della nostra vita. Non si annunciano con squilli di trombe e srotolamento di tappeti rossi. Capitano e basta.
La rabbia nei confronti di favoritismi e clientelismo di vario genere è andata a premere su un tasto evidentemente ancora dolorante: il mio bisogno di attenzione. Un bisogno primordiale, oserei dire. Un bisogno comune a tutti gli umani, indipendentemente dall'età. E quando non si riesce ad ottenere attenzione attraverso canali normali quali l'autorevolezza o l'equilibrio di giudizio, si ricorre ad altri canali, spesso sleali, che vanno a compensare le mancanze personali. Ed ecco, allora, frotte di manipolatori, seduttori e aggressori. Ecco, la mia rabbia era ed è, in realtà, frustrazione per la mancata attenzione.
Non è facile confessarlo, per me, anche se è una sensazione catartica, liberatoria. Mi vergogno un po' di come ho "agito" questa rabbia e di quello che mi ha portata a fare. Mi vergogno un po' delle cazzate che ho combinato, del tempo che ho "sprecato"... Mi vergogno un po' ma è una "diminutio capitis" necessaria. E' come se mi fosse caduto un velo dagli occhi.
Adesso aspetto i frutti di questa nuova consapevolezza. So che non devo andarli a cercare ma che si paleseranno quanto prima. Li farò agire nella mia vita, abbandonandomi (altra cosa piuttosto difficile, per me, ma altrettanto necessaria) a quello che gli antichi chiamavano Fato. Mi farò agire dal cambiamento, cercherò di non interferire.
Per salvarmi.